Dōjō (Dō: via, jō: luogo) significa "luogo dove viene praticata la via". È lo spazio in cui si svolge l‘allenamento, ma è anche simbolo della profondità del rapporto che il praticante instaura con l'arte marziale.
Tale ultimo aspetto è proprio della cultura orientale, che individua il dōjō quale luogo dell’isolamento e della meditazione.
I dōjō erano spesso piccoli locali situati nelle vicinanze di un tempio o di un castello, ai margini delle foreste, affinché i segreti delle tecniche venissero più facilmente preservati.
Con la diffusione delle arti marziali sorsero numerosi dōjō che venivono considerati da maestri e praticanti una seconda casa. Abbelliti con lavori di calligralia e oggetti artistici preparati dagli stessi allievi, essi esprimevano appieno l'atmosfera di dignità che vi regnava.
Talvolta su di una parete veniva posto uno scrigno, simbolo che il dōjō era dedicato ai più alti valori e alle virtù del Do, non soltanto all'esercizio fisico. ln atri dōjō si trovavano gli altari detti kamiza (sede degli dei), riferiti non a divinità, ma al ricordo di un grande maestro defunto.
Nel nostro stile questa tradizione viene continuata collocando l'immagine del M° Funakoshi, fondatore dello Shotokan, nello stesso punto dove anticamente si trovavano i kamiza. il cammino del M° Funakoshi nell’insegnamento del karate conobbe molte tappe e difficoltà, legate in modo indissolubile ai numerosi dōjō da lui creati. Nel maggio del l922, dopo la dimostrazione al Kodokan (il dōjō del maestro di judo J. Kano), Funakoshi cominciò il suo insegnamento a Meishi-juko, il pensionato degli Studenti di Okinawa. Egli ottenne l'autorizzazione ad utilizzare la sala conferenze di questa struttura, che misurava all'incirca trentasei metri quadrati.
L'edificio venne distrutto durante il grande terremoto del 1924 ed il maestro fu costretto a cercare un'altro sede.
Hokudo Nokayama, un celebre maestro nell'arte della spada, propose a Funakoshi di utilizzare il suo dōjō nelle ore in cui esso rimaneva inutilizzato, ma l'insegnamento del kendo era richiesto in tale misura che Funakoshi, dopo sette anni, dovette abbandonare anche quel dōjō.
Nel 1931 affittò una piccola casa in uno dei quartieri centrali di Tokio, Masagocho. Nel giardino di questa casa fece "posare le assi di legno" e prese a dirigere gli allenamenti. Un anno più tardi riuscì ad affittare pianterreno della casa vicino ed a costruirvi un dōjō di trenta metri quadrati.
Gli allievi del M° Funakashi si autotassarono per molti anni e nel marzo del 1938 poterono inaugurare il nuovo dōjō, che venne chiamato Shotokan (la casa nel fruscio della pineta): tale nome rimarrà poi a designare la sua scuola. Il divenne il centro dell'insegnamento del karate Shotokan e fu frequentato da numerosi adepti sino all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Un bombardamento lo distrusse completamente ne marzo del 1945.
Nonostante tutto, la pratica del karate Shotokan conobbe una grandissima diffusione ed oggi come allora, il dōjō ne rimane il fulcro e continua a rappresentare un luogo di meditazione, concentrazione, apprendimento, amicizia e rispetto. ll dolo è il simbolo della via dell'arte marziale.
In Occidente questo termine viene impropriamente tradotto in "palestra" ed inteso unicamente come spazio per l'allenamento, mentre nella cultura orientale il dōjō è il luogo nel quale si può raggiungere, seguendo la "via", la perfetta unità tra zen (mente) e ken (corpo) e, quindi, il perfetto equilibrio psicofisico, massima realizzazione della propria individualità. ll dōjō è la scuola del sensei (maestro): egli ne rappresenta il vertice e sue sono le direttive e le norme di buon andamento della stessa.
Oltre al maestro ci sono altri insegnanti, suoi allievi, ed i sempai (allievi anziani di grado), che svolgono un ruolo molto importante: il loro comportamento quotidiano rappresenta l'esempio che deve guidare gli altri praticanti.
Quando un sempai non si cura del proprio comportamento diventa un danno per tutta la scuola. Nessun allievo avanzato prende dal dōjō più di quanto esso non dia a sua volta: il dōjō non è semplice spazio, ma anche immagine di un atteggiamento. I dōjō della "via” si differenziano in questo aspetto dai normali spazi sportivi: l'esercizio fisico può anche essere il medesimo, ma è la ricerca del giusto atteggiamento che consente di progredire. L'allievo di karate entra nel dōjō e deve lasciare alle sue spalle tutti i problemi della quotidianità, purificarsi la mente e concentrarsi sull'allenamento per superare i propri limiti e le proprie insicurezze, in un costante confronto con se stesso.
Il dōjō è come una piccola società, con regole ben precise che devono essere rispettate. Quando gli allievi indossano il kimono diventano tutti uguali; la loro condizione sociale o professionale viene lasciata negli spogliatoi: per il maestro essi sono tutti sullo stesso piano.
I principianti apprendono, assieme alle prime tecniche dell'arte marziale, tutta una serie di norme che vanno dalla cura della persona e del kimono (che mostra solo l'emblema della scuola e non deve presentare risvolti alle maniche o ai pantaloni, al tatto di non urlare, non sporcare, non fumare, non portare orecchini od altri abbellimenti (per evitare di ferire e di ferirsi), al fatto di comportarsi educatamente fino all'acquisizione dell'etica dell'arte marziale che discende da quella arcaico-feudale dei samurai: il Bushido o "Via del guerriero”.
Il coraggio, la gentilezza, la cortesia, il reciproco aiuto, il rispetto di se stessi e degli altri sono dettami che, a ungo andare, entrano a far parte del bagaglio culturale dell'allievo.
Nel dōjō non si usa la violenza: non per nulla le arti marziali enfatizzano la forza mentale e non quella fisica, condannata prima o poi ad affiievolirsi. Si entra e si esce dal dōjō inchinandosi: un segno di rispetto verso l'arte ed un ringraziamento per tutto ciò che di valido essa ha offerto. Anticamente, nel dōjō veniva eseguito il rito del soji (pulizia): gli allievi, usando scope e strofinacci, pulivano l'ambiente, lasciandolo in ordine peri successivi allenamenti. Tale gesto è il simbolo della purificazione del corpo e della mente: i praticanti si preparano ad affrontare il mondo esterno con umiltà.
L'umiltà è una dote necessaria per apprendere e per insegnare il karate: su questo presupposto si stabilisce il primo rapporto tra insegnante ed allievi, destinato a durare nel tempo ed a tramutarsi in una solida amicizia anche fuori dalla palestra, con grande beneficio per gli uomini e per Il karate.